a cura di Benedetta de Vito
Al numero 16 di via di San Sebastianello, che da piazza di Spagna, in frescura campestre, sale su fino a Villa Medici, c’era, ai tempi di Carlo Magno, cioè quando io ero una bambina e poi una giovanetta, l’Istituto Mater Dei, fondato nel 1886 da Mother Mary Magdalen Taylor, inglese, morta nel 1900. L’edificio, 18 mila metri quadrati, un bel palazzo color ocra ritto sugli stivali nel bel centro di Roma, era stato donato all’ordine delle Povere serve della Madre di Dio dal baronetto irlandese Alexander George Fullerton e da sua moglie, Georgina. Tutti e due convertiti al cattolicesimo e Georgina terziaria francescana. Per me che allora non sapevo tutto questo era semplicemente la mia scuola: L’Istituto Mater Dei, materna, elementari, medie, ginnasio e liceo. Una sezione per classe. Era una scuola al profumo di lavanda, lavata con il sapone di Marsiglia, stirata nell’appretto, piena di “sister” originali, ognuna a modo suo, e di maestre e professoresse che mi hanno consentito, anni più tardi, di prendere una laurea, con lode, in lingue e letterature straniere, di lavorare in un quotidiano nazionale come giornalista professionista e di scrivere dei libri. Io sono diventata sposa e madre, intanto il Mater Dei, a fine anni Ottanta, ha chiuso i battenti e ora, dopo aver ospitato il British Council, il bel palazzo che è stato la mia scuola per tredici anni, langue in un limbo, aspettando qualcuno che lo prenda in affitto.
Così, meglio fare un passo indietro e immaginatevi una bambina bionda, un poco slavata, vestita nella divisa bianca e blu dell’Istituto (che d’inverno si faceva tutta blu e d’estate schiariva in bianco la camicetta) proprio in bocca al portone, pronta a portarvi a fare un giro al sapore di memoria. Seguitela senza timore perché sono io di quei tempi lì. Entrando dal gran portone centrale, sulla destra, c’era, misterioso, il ritiro del portiere, dove era proibitissimo entrare e che profumava di casa. S’apriva sulla sinistra, la piccola Cappella, dove, al mattino presto, divise per età e per classi, recitavamo un Mistero del Santo Rosario, Le piccole squillavano l’Ave, rispondevano le grandi con il Santa Maria. E tutte con i capelli legati e con il basco blu in testa. Poi si dava il via al rito della genuflessione, la cui regia spettava a Sister Francis, una suora rotondetta, dai raffinati gusti letterari (ci fece imparare a memoria tutto il monologo di Antonio sul corpo di Cesare) che, battendo le nocche sul banco, ordinava il su e il giù. Poi, quasi di corsa, con un inchino alla Madonnina, incoronata di lumini accesi, su ognuna alla propria classe.
Al primo piano, difese dalle due sister portiere che erano italiane e gemelle, Sister Paolina e sister Addolorata, c’erano la materna e le elementari. Le maestre, bravissime, erano tutte laiche. La mia si chiamava Maestra Poesio ed era una donna energica, sempre in tailleur rosa, che ci faceva fare le cornicette intorno alle paginette del quaderno e il gioco del silenzio. Zitte zitte per essere chiamate a scegliere la compagna, che doveva succederci, imparavamo a tacere. Per le medie si saliva d’un piano. Anche le professoresse erano laiche. Alcune andavano via appena “vincevano il concorso” che , per noi alunne, era latinorum ma significava che dovevamo cambiare insegnante e non ci piaceva tanto. Almeno non sempre.
Ginnasio e licei erano all’ultimo piano, che aveva un promontorio all’aperto dove pascolavamo a gruppetti durante la ricreazione annunciata dal trillo di una campanella. Lo studio era al centro di tutto e la preghiera solo al mattino presto. Alcune ex alunne che ho conosciuto mi han raccontato che, ai loro tempi, al Mezzogiorno, si recitava l’Angelus. Ma l’abitudine era andata perduta quando in classe sedevo io con le mie ventinove compagne, tutte ragazze e alcune simpatiche e altre meno, come accade in ogni classe che si rispetti e anche in classe mia. Ecco le aule, ampie, dalle grandi finestre, come occhi puntati sulla quiete perché san Sebastianello sembrava un pezzo di campagna trasportato dagli angeli in città.
Tante le sister indimenticabili. Di Sister Francis ho già detto l’essenziale, ma dovrei dir molto di più perché ha lasciato in me un affetto tenero e il cuore si scioglie in pianto al ricordo di lei. Pirotecnica e dispettosa era Sister Saint Paul che ci inseguiva con il righello da sarto in mano se avevamo “i capeli ne li occhi”. Acciuffate, ci legava i ciuffi con elastici da cartoleri a che a toglierli eran dolori. Sister Saint Kevin, la direttrice, era severa e bellissima. Di lei si raccontavano storie di fughe e d’amore, ma non so se furono dicerie, epica o altro. Ricordo soltanto che un giorno mi prese di mira e che, indicandomi, con gli occhi saettanti, mi sbriciolò con un “You are superb!”. Tornata a casa, in pianto, chiesi a mia madre che cosa voleva dire. Non so se lo capii oppure no, di certo, cercai tutta la vita di non esserlo.
Tra le professoresse del liceo il posto in prima pagina va sicuramente alla professoressa Cannovale. Piccola, perfettamente organizzata, innamorata del poeta Orazio, trasferì a tutta la mia classe l’amore per il latino. Era anche vice direttrice e a volte, credo, temperava la severità di Sister Kevin.
I Sacramenti, tutti, li prendevamo a scuola. La prima Comunione, vestite da sposine, con un giro di roselline bianche intorno all’ovale del volto e il lungo velo bianco. Che gioia, la mia, nel portare le scarpette smesse di mia sorella, con il bottoncino laterale e la borsina di tulle! Dopo la cerimonia solenne, tutte al secondo piano per “l’agape” che consisteva in una deliziosa cioccolata calda… Per la Cresima, invece, soldatine di Gesù, bastava la divisa estiva. Per confessarci veniva un sacerdote che ci riceveva una per volta in sacrestia. Ricordo che, inginocchiata, a fare l’esame di coscienza, finivo per inventarmi i peccati perché non li ricordavo. E c’era sempre da recitare qualche Ave Maria. Ecco, ho finito, scolorano i ricordi, è tempo di indossare i panni della moglie e di preparare la cena e di congedarmi con i miei pazienti lettori, usando il saluto, bellissimo, che ho imparato da poco: “Vivat Jesus in cordibus nostris”. Risposta, vostra: “Semper”.